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Revoca di un bando di selezione e monetizzazione delle ferie non godute, la recente giurisprudenza

Alcune delle più importanti indicazioni contenute nella più recente giurisprudenza dei giudici amministrativi sulla revoca di un bando di selezione e sulla monetizzazione delle ferie non godute
 

11 MARZO 2024

Approfondimento di Carlo dell'Erba
 
La revoca di un bando di selezione deve essere considerata coma una scelta legittima se nessuno degli ammessi risulta essere in possesso della abilitazione professionale richiesta dallo stesso avviso. Deve essere corrisposta la monetizzazione delle ferie non godute solamente se la mancata fruizione non è stata provocata dalle scelte del dipendente. Sono queste alcune delle più importanti indicazioni contenute nella più recente giurisprudenza dei giudici amministrativi.
 

La legittimità della revoca di un bando di selezione


Deve essere considerata come una scelta legittima la revoca di un bando di selezione per il conferimento di un incarico di esperto per la mancanza da parte dei partecipanti del requisito richiesto della abilitazione professionale. Lo ha affermato la sentenza della prima sezione del TAR del Molise n. 37/2024.
E’ stata respinta la richiesta di dichiarare la incompetenza del giudice amministrativo in considerazione del fatto che siamo in presenza non di un concorso, ma di una selezione pubblica non strettamente concorsuale. Leggiamo al riguardo che: “l’oggetto principale del presente gravame si identifica in un provvedimento di revoca di bando, con il quale l’Amministrazione ha esercitato un proprio potere di autotutela in materia organizzatoria, assumendo quindi un provvedimento sindacabile, come tale, innanzi al giudice amministrativo in base agli ordinari criteri generali di riparto”.
Sempre in premessa ci viene ricordata la necessità della presenza di un interesse ad agire: esso deve “persistere per tutto il corso del giudizio ed è caratterizzato dalla presenza degli stessi requisiti che caratterizzano l’interesse ad agire di cui all’art. 100 c.p.c.: vale a dire la prospettazione di una lesione concreta ed attuale della sfera giuridica del ricorrente e l’effettiva utilità che potrebbe derivare a quest’ultimo dall’eventuale annullamento dell’atto impugnato.. Il ricorso giurisdizionale deve essere considerato inammissibile per carenza di interesse in tutte le ipotesi in cui l’annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo non sia in grado di arrecare alcun vantaggio all’interesse sostanziale del ricorrente”.
Nel merito leggiamo in primo luogo che “l’interpretazione del bando soggiace, come tutti gli atti amministrativi, alle stesse regole stabilite per i contratti dagli articoli 1362 e ss., tra le quali assume carattere preminente quella collegata all’interpretazione letterale, in quanto compatibile con il provvedimento amministrativo, fermo restando, per un verso, che il giudice deve in ogni caso ricostruire l’intento perseguito dall’amministrazione ed il potere concretamente esercitato sulla base del contenuto complessivo dell’atto (c.d. interpretazione sistematica) e, per altro verso, che gli effetti del provvedimento, in virtù del criterio di interpretazione di buona fede, ex 1366 c.c., devono essere individuati solo in base di ciò che il destinatario può ragionevolmente intendere”. Inoltre, “a fronte di un apparente contrasto tra un bando e i suoi allegati, va data prevalenza alle disposizioni del primo, poiché tra i suddetti atti sussiste una gerarchia differenziata con prevalenza del contenuto del bando di gara”. Ed ancora, leggiamo che “il requisito dell’abilitazione richiesto dal Comune non si presentava affatto irragionevole rispetto alla professionalità ricercata. Il bando si rivolgeva infatti ad una platea qualificata di candidati, e tanto rendeva perfettamente aderente alla tipologia di risorse richiesta la previsione di requisiti professionali, quale per l’appunto quello dell’abilitazione, ulteriori rispetto al mero possesso del titolo di studio della laurea. Sotto altro aspetto, la previsione del requisito professionale in discussione non si potrebbe neppure reputare confliggente con gli immanenti principi, di matrice costituzionale, del buon andamento e della buona amministrazione. Infatti il Comune resistente, di piccole dimensioni, e pertanto munito di una dotazione organica esigua, ha ragionevolmente inteso ricercare profili professionali in possesso di specifiche e comprovate professionalità in materia contabile allo scopo, temporalmente circoscritto, di avviare e definire i procedimenti necessari per l’accesso a finanziamenti previsti in favore degli Enti locali dal PNNR. In proposito, d’altra parte, la giurisprudenza amministrativa, valorizzando la specificità delle esigenze delle Amministrazioni nella ricerca della provvista di personale, ha più volte affermato l’ampiezza della correlativa loro discrezionalità nell’individuazione dei titoli richiesti per la partecipazione alle loro procedure selettive, poiché si tratta, per l’Amministrazione, di fissare una soglia minima di accesso al concorso avendo riguardo, da un lato, alle caratteristiche intrinseche del posto da ricoprire; dall’altro, alle esigenze organizzative che postulano, in omaggio al principio costituzionale del buon andamento, una gestione efficiente delle procedure concorsuali. In questo ambito, il margine per un intervento del G.A. è assai limitato, ed attiene al rispetto formale della legge o a casi di palese e manifesta irragionevolezza o difetto di proporzionalità, o comunque di illogicità, arbitrarietà e contraddittorietà”.
Infine, “la revoca di un bando di concorso pubblico rientra nei normali ed ampi poteri discrezionali della pubblica amministrazione…In particolare, il bando con cui si indice il pubblico concorso deve essere qualificato come atto amministrativo generale, che, per quanto previsto dalla legge n. 241/1990, non soggiace all’obbligo motivazionale ed a cui non si applicano le garanzie partecipative. Alla stessa stregua deve classificarsi atto generale anche il contrarius actus con cui la Pubblica amministrazione revoca il bando. Tuttavia, anche tali atti devono rispondere – in primis attraverso un adeguato apparato motivazionale – ai consueti canoni di ragionevolezza e proporzionalità e della ponderazione del pubblico interesse, seppure per gli stessi non è richiesta una motivazione particolarmente dettagliata che riscontri anche eventuali contrastanti interessi privati”.
 
Le condizioni che legittimano la monetizzazione delle ferie non godute
La monetizzazione delle ferie non godute non spetta se il dipendente non ha avanzato la specifica istanza. Lo ha affermato l’Adunanza Generale del Consiglio di Stato con il parere n. 148/2024 si è espresso sul ricorso straordinario presentato al Presidente della Repubblica sul rigetto della richiesta di monetizzazione delle ferie non godute da parte dei congiunti di un appartenente alla Guardia di Finanza collocato in quiescenza che è deceduto.
Leggiamo il seguente principio: “La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato – in linea con la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 95 del 2016) e quella della Corte di giustizia (prima sezione, sentenza 25 giugno 2020, C-762/18 e C-37/19) – è ormai consolidata nel senso di ritenere che il diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute spetta quando sia certo che la loro mancata fruizione non sia stata determinata dalla volontà del lavoratore e non sia ad esso comunque imputabile (Cons. Stato, sez. I, 3 luglio 2023, n. 982; sez. II, 30 marzo 2022, n. 2349, sez. IV, 13 marzo 2018, n. 1580, sez. III, 17 maggio 2018, n. 2956, e 21 marzo 2016, n. 1138). Ove invece il dipendente abbia avuto la possibilità di fruire delle ferie (e quindi in assenza di una indicazione di senso contrario proveniente dal datore di lavoro), vige il divieto di monetizzazione di cui all’art. 5, comma 8, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 135, che pertanto opera laddove il dipendente medesimo non abbia fatto espressa richiesta delle ferie medesime (Cons. Stato, sez. I, 3 luglio 2023, n. 982; sez. II, 30 marzo 2022, n. 2349, sez. IV, 12 ottobre 2020, n. 6047, e 2 marzo 2020, n. 1490)”.
Si deve evidenziare che questa pronuncia non sembra tenere adeguatamente conto di quanto statuito da ultimo dalla Corte di Giustizia Europea, sentenza 18 gennaio 2024 C-218/2022, per la quale “il datore di lavoro è segnatamente tenuto ad assicurarsi concretamente e in piena trasparenza che il lavoratore sia effettivamente in condizione di fruire delle ferie annuali retribuite, invitandolo, se necessario formalmente, a farlo, e nel contempo informandolo, in modo accurato e in tempo utile a garantire che tali ferie siano ancora idonee ad apportare all’interessato il riposo e la distensione cui esse sono volte a contribuire, del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato, o non potranno più essere sostituite da un’indennità finanziaria”. Principi che per molti aspetti sono fatti propri dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione.