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L'avviso di accertamento soddisfa l'obbligo di motivazione ogni qualvolta l'Amministrazione abbia posto il contribuente in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali

Con ordinanza n. 35235 del 30 novembre 2022, la Sezione Lavoro della Suprema Corte di Cassazione ha ribadito che, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, devono ricorrere una serie di requisiti
 

21 DICEMBRE 2022

di Dionisio Serra, cultore di diritto del lavoro presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bari.

Con ordinanza n. 35235 del 30 novembre 2022, la Sezione Lavoro della Suprema Corte di Cassazione ha ribadito che, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio-illeciti o anche leciti se considerati singolarmente-che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.

Premessa

Nel 1998, sul Corriere della Serra, Merlo scriveva ”l’ultima trovata della filosofia buonista è il mobbing, il mal d’ufficio, il malessere provocato dalle calunnie dei colleghi, dalle prepotenze dei capetti e dei concorrenti, la maldicenza che ti ostacola la carriera, le piccole sevizie subite quotidianamente sul lavoro, il doppiogioco del compagno. Medici e sindacalisti, giornalisti e professori vorrebbero che gli uffici italiani fossero dunque finalmente purificati dal morbo del mobbing, niente più calunnie o invidie”(1).

Il mobbing, che inizialmente è stato esclusivo o prevalente campo di indagine della psicologia, medicina e della sociologia del lavoro, è stato recentemente affrontato, in modo adeguato ed appropriato, anche dal punto di vista giuridico.

Il mobbing nel mondo del lavoro è ricondotto a sistematiche e ripetute angherie e pratiche di vessazione poste in essere dal datore di lavoro o da un superiore gerarchico, oppure da colleghi di lavoro di pari livello o subalterni nei confronti di un determinato lavoratore(il c.d. mobbizzato) con l’evidente scopo di emarginarlo, isolarlo ed indurlo, infine, alle dimissioni. Scopo del mobbing può essere sia quello di giungere all’espulsione della vittima dall’ambiente di lavoro, ma anche lo scopo può essere più limitatamente quello di danneggiarla, di emarginarla, di discriminarla, magari fino a quando non giunga a perdere il posto di lavoro, anche perché costretta a lasciarlo(2).

Le forme che il mobbing può assumere sul posto di lavoro nei confronti di un lavoratore sono diverse e vanno dall’emarginazione alla diffusione di maldicenze, dalle continue critiche alla persecuzione sistemica, dalla dequalificazione professionale alle ritorsioni sulle possibilità di carriera, al fine di metterlo in difficoltà.

Per quanto concerne i soggetti attivi vengono in evidenza le condotte-commissive o, in ipotesi, omissive-che possono estrinsecarsi sia in atti giuridici veri e propri sia in semplici comportamenti materiali aventi in ogni caso la duplice peculiarità di poter essere, se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti dal punto di vista giuridico, e tuttavia di acquisire comunque rilievo quali elementi della complessiva condotta caratterizzata nel suo insieme dall’effetto e, talvolta, dallo scopo di persecuzione e di emarginazione.

La giurisprudenza è ferma nell’affermare che il lavoratore che agisca in giudizio lamentando di essere vittima di mobbing non può limitarsi a contestazioni generiche ma deve dimostrare l’esistenza di una condotta sistematica e protratta nel tempo, messo in atto da parte del datore di lavoro o dal superiore, che si concretizzi in sistematici e reiterati comportamenti aventi l’esclusivo fine di perseguitare ed emarginare la vittima.

Il caso

La Corte d’Appello di Bari, confermando la sentenza del Tribunale di Trani, aveva rigettato la domanda di risarcimento dei danni per mobbing proposta, nei riguardi del Comune di Bisceglie, da un lavoratore, già responsabile del Primo Settore Segreteria Generale(1 Ripartizione amministrativa) e poi trasferito come dirigente del Settore Servizi Demografici e, infine, dell’Area Ambiente e Sanità.

La Corte di merito aveva escluso che vi fosse prova dell’intento lesivo e persecutorio, che muoveva dall’assunto, erroneo e aprioristico ad avviso del giudice d’appello, che i diversi incarichi rivestiti dal dirigente, rientranti tutti nella qualifica dirigenziale, non fossero equiparabili a quello originario nella Segreteria Generale, perché caratterizzati da minor importanza e grado di responsabilità; tale assunto non teneva conto, infatti, che non era configurabile un diritto del dirigente a conservare, nel rispetto di professionalità acquisite, un incarico dirigenziale di specifica tipologia e che non era applicabile al dirigente pubblico locale la disposizione dell’art.2103 cod.civ.

I vizi degli atti sindacali, come riscontrati in sede di ricorso straordinario al Capo dello Stato o in sede giurisdizionale dinanzi al giudice amministrativo, erano legati poi a “rilievi di tipo meramente formale”, onde l’impossibilità di inferirne, per ciò solo, la lesività delle condotte della P.A. nel diverso campo privatistico, anche perché era rimasta indimostrata “la mala fede e scorrettezza dell’agere del Sindaco, in carica dal 1996 al 2005, essendo piuttosto evincibile ex actis “la tensione che ha caratterizzato il rapporto tra il dirigente e il suo Sindaco”; né infine poteva attribuirsi rilevanza alla vicenda penale, posto che la Corte d’appello di Bari, con sentenza n. 320/2012, limitandosi a rilevare che difettasse”l’evidenza dell’innocenza”, aveva escluso la punibilità del Sindaco per il reato di abuso d’ufficio per effetto della maturata prescrizione.

La Corte distrettuale riconosceva come l’amministrazione avesse dato” giustificazioni plausibili” rispetto ai plurimi episodi richiamati dal lavoratore a supporto del mobbing, quali dinieghi di ferie e di richieste di partecipazioni a corsi, sistemazioni logistiche inadeguate ecc., siccome occasionati da situazioni contingenti e non dai ventilati intenti persecutori.

Il dirigente in questione proponeva, pertanto, avverso tale sentenza, ricorso per cassazione .

Il ricorrente sosteneva che il giudice d’appello aveva proceduto a un’errata qualificazione della fattispecie che era incentrata non sull’illegittimità di singoli atti di attribuzione degli incarichi e sull’esercizio dello ius varianti datoriale né tanto meno sul diritto del dirigente  a conservare le posizioni occupate in precedenza, ma sul complesso delle condotte unitariamente considerate in termini di mobbing, profilo su cui era innestata la domanda, su cui la Corte territoriale non si era pronunciata, di risarcimento del danno, che tutti gli atti adottati dal Sindaco aventi oggetto il suo mutamento di incarico erano stati annullati per illegittimità ed avevano sicura lesività anche in ambito privatistico, tradendo la volontà punitiva e persecutoria del Sindaco, fonte di responsabilità anche per la P.A..

Deduceva, inoltre, l’illegittimità degli atti di attribuzione degli incarichi, per mancanza di valutazioni comparative tra gli aspiranti in violazione del canone di buona fede, che impingerebbe  in responsabilità contrattuale, e che l’elemento psicologico dell’illecito si evinceva dalla prove raccolte nel diverso ambito del giudizio amministrativo ed ove mai il giudice d’appello avesse ritenuto indimostrato il fine persecutorio, ben poteva valutare se alcune delle condotte denunciate, pur non unificate da tale fine, potevano essere considerate nondimeno mortificanti per il lavoratore e comunque ascrivibili a responsabilità datoriale.

Sosteneva il ricorrente anche di aver dedotto e provato il maggior rilievo dell’incarico alla Segreteria Generale rispetto a quello alla Ripartizione Ambiente e il fatto, peraltro confermato dal Consiglio di Stato nei pareri adottati, non era contestato ex adverso, sicchè la Corte di merito, sostenendo l’equivalenza degli incarichi dirigenziali, aveva violato l’art.115 cod. proc. Civ. e anche l’art.112 cod. proc. Civ. perchè avrebbe pronunciato su una eccezione mai proposta dall’amministrazione comunale.

Sosteneva, infine, che dalla documentazione allegata si evinceva non già una situazione di ”tensione che ebbe a caratterizzare il rapporto tra il Dirigente e il suo Sindaco”, come incongruamente osservato dalla Corte barese, ma piuttosto l’animus nocendi di quest’ultimo, disvelato dall’uso di espressioni di sapore intimidatorio, offensive, lesive della dignità professionale del dirigente.

La decisione

Con ordinanza n. 35235 del 30 novembre 2022, la Sezione Lavoro della Suprema Corte di Cassazione, ribaltando la decisione del giudice di appello, accoglie, con rinvio alla Corte d’appello di Lecce, il ricorso del dirigente del Comune di Bisceglie.

La sentenza ribadisce che, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio-illeciti o anche leciti se considerati singolarmente-che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi(Cass. 10 novembre 2017, n. 26684; Cass.24 novembre 2016, n. 24029; Cass. 6 agosto 2014, n. 17698).

Se ne desume, per la Cassazione che l’elemento qualificante va ricercato non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto.

Per i giudici della Cassazione, a tal fine, la legittimità dei provvedimenti può rilevare ma solo indirettamente perché, ove facciano difetto elementi probatori di segno contrario, può essere sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata; parimenti la conflittualità delle relazioni personali esistenti all’interno dell’ufficio, che impone al datore di lavoro di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, può essere apprezzata dal giudice per escludere che i provvedimenti siano stati adottati al solo fine di mortificare la personalità e la dignità del lavoratore; nel giudizio sulla sussistenza o meno dell’intento persecutorio rileva anche la natura pubblica del datore di lavoro, che, nel rispetto del principio costituzionale di cui all’art.97 cost., è tenuto ad intervenire per assicurare efficienza, legittimità e trasparenza dell’azione amministrativa.

Per la Cassazione la sentenza impugnata ha escluso la fondatezza della domanda sulla base di argomenti non conferenti e contraddittori perché, oltre a ritenere che la legittimità del provvedimento di rimozione dall’originario incarico dirigenziale nella Segreteria Generale e della conseguente riassegnazione ad altro incarico escludesse in radice la configurabilità del mobbing, ha tenuto in non cale le reiterate pronunce di annullamento degli organi di giustizia amministrativa e le argomentazioni che le sorreggevano.

Per la Cassazione, la Corte di merito ha, in particolare, affermato  l’irrilevanza dell’animus puniendi di cui fa cenno il giudice amministrativo, in tal guisa pervenendo a conclusioni difformi da quelle attinte nel diverso ambito giurisdizionale, quando, al contrario, proprio l’intento persecutorio, se debitamente apprezzato, può rendere illecita la condotta, se sistematica e reiterata, finanche nei casi di apparente legittimità degli atti adottati; la motivazione, per la Suprema Corte, si rivela, poi, carente perché si fonda solo sulla valutazione frammentaria e atomistica dei singoli provvedimenti di assegnazione al nuovo incarico dirigenziale e non sviluppa una valutazione globale delle iniziative adottate nei confronti del dirigente dall’amministrazione comunale, sebbene i motivi di appello chiamassero la Corte territoriale a pronunciare sulla sussunzione del caso concreto a una fattispecie astratta nella quale rilievo determinante assume proprio la reiterazione e la sistematicità della condotta.

La Corte di Cassazione, inoltre, nella pronuncia che qui si annota, evidenzia che, nell’ambito del lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni, con riguardo agli incarichi dirigenziali, sulla base della giurisprudenza della Corte costituzionale affermatasi a partire dalle sentenze n. 103 e n.104 del 2007 e ormai consolidata, le uniche ipotesi in cui l’applicazione dello spoils system può essere ritenuta coerente con i principi costituzionali di cui all’art.97 Cost. sono quelle nelle quali si riscontrano i requisiti della”apicalità” dell’incarico nonché della ”fiduciarietà” della scelta del soggetto da nominare, con la ulteriore specificazione che la fiduciarietà, per legittimare l’applicazione del suindicato meccanismo, deve essere intesa come preventiva valutazione soggettiva di consonanza politica e personale con il titolare dell’organo politico, che di volta in volta viene in considerazione come nominante(Cass.5 maggio 2017, n. 11015).

La Cassazione ritiene, pertanto, che il meccanismo non è applicabile in caso di incarico di tipo tecnico-professionale, come quello di specie, che non comporta il compito di collaborare direttamente al processo di formazione dell’indirizzo politico, ma soltanto lo svolgimento di funzioni gestionali e di esecuzione rispetto agli indirizzi deliberati dagli organi di governo dell’ente di riferimento: discostandosi da tali principi, per la Cassazione, la Corte di merito svaluta le documentate ingerenze del Sindaco sull’attività amministrativa del ricorrente, certamente non indicative di un’impostazione atta a preservare quella doverosa separatezza tra attività politica e amministrazione attiva.

In definitiva, per la Cassazione, la rimozione del ricorrente dall’incarico dirigenziale di maggiore pregnanza nell’Area della Segreteria Generale, in virtù di plurimi provvedimenti illegittimi e quindi annullati dagli organi di giustizia amministrativa, la mancata ottemperanza dell’amministrazione a tali pronunciamenti e, ancora, le interferenze nell’attività di gestione amministrativa deputata al lavoratore, erano condotte suscettibili di apprezzamento ex art. 2087 cod. civ., disposizione che, nella interpretazione comunemente accolta, si ispira al principio della salvaguardia del diritto alla salute, inteso nel senso più ampio, bene giuridico primario garantito dall’art. 32 della Costituzione, e correlato al principio di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod.civ.

Per i giudici di legittimità, sempre dall’art. 2087 cod. civ. sorge il divieto per il datore di lavoro non solo di compiere direttamente qualsiasi comportamento lesivo della integrità psico-fisica del prestatore di lavoro, ma anche l’obbligo di prevenire, scoraggiare e neutralizzare qualsiasi comportamento lesivo posto in essere dai superiori gerarchici, preposti o di altri dipendenti nell’ambito dello svolgimento dell’attività lavorativa; la stessa giurisprudenza, aggiunge la Cassazione, precisa, poi, che la suddetta definizione del mobbing lavorativo si desume che se anche le diverse condotte denunciate dal lavoratore non si ricompongano in un unicum e non risultano, pertanto, complessivamente e cumulativamente idonee a destabilizzare l’equilibrio psico-fisico del lavoratore o a mortificare la sua dignità, ciò non esclude che tali condotte o alcune di esse, ancorchè finalisticamente non accumunate, possano, risultare, se esaminate separatamente e distintamente, lesive dei fondamentali diritti del lavoratore, costituzionalmente tutelati(arg da Cass., Sez.VI pen., 8 marzo 2006, n. 31413).

In simile evenienza, per la Cassazione, l’accertamento di tale lesione non può considerarsi impedito dall’eventuale originaria prospettazione della domanda giudiziale in termini di danno da mobbing, in quanto si tratta piuttosto di una operazione di esatta qualificazione giuridica dell’azione  che il giudice del merito è tenuto ad effettuare, interpretando il titolo su cui si fonda la controversia ed anche applicando norme di legge diverse da quelle invocate dalle parti interessate, purchè lasciando inalterati sia il petitum che la causa petendi e non attribuendo un bene diverso da quello domandato o introducendo nel tema controverso nuovi elementi di fatto(Cass.1 settembre 2004, n. 17610; Cass.23 marzo 2005, n. 6326; Cass. 12 aprile 2006, n. 8519); spettava, quindi, per la Cassazione, alla Corte territoriale accertare se le condotte denunciate fossero lesive dei diritti del lavoratore e verificare se vi fossero stati danni da stress-lavoro correlato, potendo, anche d’ufficio, modificare la originaria impostazione della domanda e valutare se, dagli elementi dedotti-per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto-potesse presuntivamente risalirsi(quanto meno) al fatto ignoto dell’esistenza di questo più tenue danno(Cass.10 luglio 2018, n. 18164; Cass.19 febbraio 2016, n. 3291).

Conclusioni

La pronuncia della Cassazione sopra richiamata, che ha riguardato un dirigente di un Comune, come abbiamo visto, ribadisce che, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio-illeciti o anche leciti se considerati singolarmente-che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.

La caratteristica del mobbing è proprio la sistematicità e la durata degli atti di persecuzione e dell’aggressione.

Il mobbing è fenomeno difficile da dimostrare proprio perché non sempre ci si trova innanzi ad atti illegittimi, ma spesso ad atti neutri, con la conseguente difficoltà di distinguere gli atti che arrecano danni risarcibili da quelli che invece rientrano nella normale gestione, pur conflittuale, dei rapporti di lavoro e sociali.

Note

(1)Merlo, Il mal d’ufficio, ultima trovata della filosofia buonista, Corriere della Sera, suppl. Sette, 26-11-1998, n. 47.

(2)Sanlorenzo,Il mobbing e il diritto del lavoratore alla prestazione lavorativa, htt:www. dirittolavoro.web1000.com,2003.