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Attività commerciale in locali abusivi dal punto di vista edilizio: scatta la revoca-decadenza dell’autorizzazione

Il Consiglio di Stato, (Sez. VI), nella sentenza del 25 giugno 2024, n. 5616, tra i presupposti del legittimo svolgimento dell’attività commerciale va annoverata la regolarità edilizia dell’immobile in cui l’attività è esercitata, rispondendo ad un evidente principio di ragionevolezza escludere che possa essere utilizzato uno spazio, con la presenza dell’utenza, in contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia
 

5 LUGLIO 2024

di M. Petrulli
 
La regolarità edilizia dei locali quale presupposto per il legittimo svolgimento dell’attività commerciale
L’art. 3, comma 7, della Legge n. 287/1991 (Aggiornamento della normativa sull’insediamento e sull’attività dei pubblici esercizi) dispone che “Le attività di somministrazione di alimenti e di bevande devono essere esercitate nel rispetto delle vigenti norme, prescrizioni e autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica e igienico-sanitaria, nonché di quelle sulla destinazione d’uso dei locali e degli edifici, fatta salva l’irrogazione delle sanzioni relative alle norme e prescrizioni violate”.
 
Conseguentemente, come evidenziato dalla giurisprudenza in più occasioni[1] e ribadito recentemente dal Consiglio di Stato, sez. VI, nella sent. 25 giugno 2024, n. 5616, tra i presupposti del legittimo svolgimento dell’attività commerciale va annoverata la regolarità edilizia dell’immobile in cui l’attività è esercitata, rispondendo ad un evidente principio di ragionevolezza escludere che possa essere utilizzato uno spazio, con la presenza dell’utenza, in contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia.
 
Il legittimo esercizio di un’attività commerciale, insomma, postula, sia in sede di rilascio del titolo abilitativo che per l’intera durata del suo svolgimento, l’inziale e perdurante regolarità, sotto il profilo urbanistico-edilizio, dei locali in cui l’attività è espletata, con conseguente potere-dovere dell’autorità amministrativa di inibire l’attività esercitata in locali rispetto ai quali siano stati adottati atti di accertamento e/o provvedimenti repressivi di abusi edilizi[2].
 
La giurisprudenza del Consiglio di Stato, per altro verso, è oramai da tempo consolidata nel senso di ritenere che nel rilascio di una autorizzazione commerciale occorre tenere presenti i presupposti aspetti di conformità urbanistico-edilizia dei locali in cui l’attività commerciale si va a svolgere, con l’ovvia conseguenza che il diniego di esercizio di attività di commercio deve ritenersi senz’altro legittimo ove fondato su rappresentate e accertate ragioni di abusività dei locali nei quali l’attività commerciale viene svolta[3].
 
Di qui, la l’esigenza della inziale e perdurante regolarità sotto il profilo urbanistico-edilizio dei locali in cui l’attività commerciale è svolta. In sostanza, non è tollerabile l’esercizio dissociato, addirittura contrastante, dei poteri che fanno capo allo stesso ente per la tutela di interessi pubblici distinti, specie quando tra questi interessi sussista un obiettivo collegamento, come è per le materie dell’urbanistica e del commercio[4], laddove la disciplina urbanistica è la prima a dover essere tenuta in considerazione al fine di valutare l’assentibilità di un’attività commerciale e la sua legittima continuazione.
 
La revoca-decadenza
Chiarito, quindi, che il legittimo esercizio di un’attività commerciale è ancorato, sia in sede di rilascio del relativo titolo autorizzatorio, sia per l’intera durata del suo svolgimento, alla disponibilità giuridica e alla regolarità urbanistico-edilizia dei locali in cui essa è posta in essere, è necessario effettuare il passaggio logico successivo.
 
Una volta accertata, l’abusività dei locali destinati all’esercizio dell’attività commerciale non può che comportare la revoca-decadenza dell’autorizzazione commerciale, senza che residui spazio a valutazioni di interessi o al disimpegno di attività discrezionale, atteggiandosi la revoca-decadenza ad atto dovuto, atteso che il ritiro dell’originario provvedimento favorevole (nel caso specifico, l’autorizzazione allo svolgimento dell’attività commerciale) trova causa ed è conseguenza della condotta del destinatario, avendo violato specifiche previsioni normative (nello specifico, attività svolta in locali non a regola dal punto di vista edilizio).
 
Come ricordato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sent. n. 18/2020, la decadenza, intesa quale vicenda pubblicistica estintiva di una posizione giuridica di vantaggio (c.d. beneficio), è istituto che, pur presentando tratti comuni col più ampio genus dell’autotutela, ne deve essere opportunamente differenziato, caratterizzandosi specificatamente:
 
per l’espressa e specifica previsione, da parte della legge, non sussistendo, in materia di decadenza, una norma generale quale quelle prevista dall’art. 21-nonies della Legge n. 241/90 che ne disciplini presupposti, condizioni ed effetti;
per la tipologia del vizio, more solito individuato nella falsità o non veridicità degli stati e delle condizioni dichiarate dall’istante o nella violazione di prescrizioni amministrative ritenute essenziali per il perdurante godimento dei benefici ovvero, ancora, nel venir meno dei requisiti di idoneità per la costituzione e la continuazione del rapporto;
per il carattere vincolato del potere, una volta accertato il ricorrere dei presupposti, non rilevando l’interesse del destinatario.
La decadenza, quindi, consegue, senza soluzione di continuità, all’accertamento della sola violazione di legge.
 
Il presupposto è che il beneficio (dal quale è pronunciata la decadenza) può essere accordato a un numero limitato di soggetti; è un risultato accordato a pochi, pur essendo contendibile da più soggetti. Pertanto, allorquando il beneficiario pone in essere comportamenti (predeterminati) dai quali si evince il mancato rispetto delle regole che lo governano, ciò giustifica di per sè la decadenza, così consentendo di svolgere la procedura atta a individuare il soggetto più meritevole a ottenere (e mantenere) la posizione di vantaggio. Non è, quindi, la sussistenza di un pregiudizio a costituire la ratio dell’istituto ma il venir meno della ragione che ha determinato l’ottenimento del beneficio da parte di un soggetto al quale è stato attribuito un benefico scarso e quindi contendibile[5].
 
Note
 
[1] Ex multis, da ultimo, Consiglio di Stato, sez. V, sent. 8 aprile 2024, n. 3182.
 
[2] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, sent. 8 aprile 2024, n. 3182, che richiama Consiglio di Stato, sez. II, sent. 27 luglio 2020, n. 4774; sez. III, sent. 26 novembre 2018, n. 6661; sez. V, sent. 17 luglio 2014, n. 3793.
 
[3] Cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, sez. V, sent. 9 aprile 2024, n. 3232, che richiama Consiglio di Stato, sez. V, sent. 21 aprile 2021, n. 3209 e sez. IV, sent. 14 ottobre 2011 n. 5537.
 
[4] Consiglio di Stato, sez. V, sent. 29 maggio 2018, n. 3212.
 
[5] Consiglio di Stato, sez. V, sent. 20 marzo 2024, n. 2687.