4 SETTEMBRE 2020
La Corte di Cassazione interviene su una notifica contestata da un legale rappresentante di società estinta trasferita all’estero, ritenendo valida la notifica eseguita in Italia all’ultimo legale rappresentante, nel domicilio fiscale ultimo noto. Riportiamo i passaggi di rilievo.
Com’è noto, la disciplina delle notificazioni degli atti tributari si fonda sul criterio del domicilio fiscale e sull’onere preventivo del contribuente di indicare all’Ufficio tributario il proprio domicilio fiscale e di tenere detto ufficio costantemente informato delle eventuali variazioni, sicché il mancato adempimento, originario o successivo, di tale onere di comunicazione legittima l’Ufficio procedente ad eseguire le notifiche comunque nel domicilio fiscale per ultimo noto, eventualmente nella forma semplificata di cui alla lett. e) dell’art. 60 del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600. Questa Corte, peraltro, in più occasioni ha chiarito che la disciplina surrichiamata è posta a garanzia dell’Amministrazione finanziaria, cui non può essere addossato l’onere di ricercare il contribuente fuori del suo domicilio, sicché la sua inosservanza non comporta, in ogni caso, l’illegittimità del procedimento notificatorio, quando venga seguita una procedura più garantista per il medesimo contribuente (Cass. 24/09/2015, n. 18934; Cass. 28/11/2014, n. 25272). Del resto, si è anche precisato che la notifica dell’avviso di accertamento al legale rappresentante della società, è valida anche se eseguita in un comune diverso da quello del domicilio fiscale della società stessa, proprio perché la limitazione territoriale di cui all’art. 60 del d.p.r. n. 600 del 1973, secondo cui la notifica degli atti tributari va effettuata nel comune ove il contribuente ha il domicilio fiscale, non è posta a garanzia di quest’ultimo, ma a tutela dell’operatività dell’Ufficio (Cass. 21/12/2016, n. 26540).
La Corte, a Sezioni Unite, occupandosi di un procedimento teso alla dichiarazione di fallimento di una società cancellata dal registro delle imprese, ha chiarito che la previsione dell’art. 10 I.fall. (in forza della quale gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese), non trova applicazione laddove la detta cancellazione venga effettuata, non a compimento del procedimento di liquidazione dell’ente o a seguito del verificarsi di altra situazione che implichi la cessazione dell’attività, ma in conseguenza del trasferimento all’estero della sede, e quindi sull’assunto che detta società continui l’esercizio dell’impresa, sia pure in un altro Stato, atteso che un siffatto trasferimento non determina il venir meno della continuità giuridica della società trasferita (Cass. S.U. 11/03/2013, n. 5945; vedi anche Cass. 04/05/2018, n. 10793). Del resto, che un soggetto giuridico costituito in forma societaria rimanga tale, anche in caso di trasferimento della sua sede all’estero, si ricava chiaramente da quelle disposizioni codicistiche (artt. 2437, comma primo, lett. c), e 2473, comma primo, c.c.), che attribuiscono ai soci nelle società azionarie e in quelle a responsabilità limitata il diritto di recesso «nel caso di trasferimento della sede all’estero»; e ciò sull’evidente presupposto della continuità della personalità giuridica, ancorchè la società si sia, appunto, cancellata dal registro delle imprese.